Gli Slavi (3) Letteratura Russa

E dopo aver visto la condizione storica nei post precedenti, vediamo un po' di letteratura russa! Certo, so bene che quasi sempre parlando di Russia si citano i grandi romanzieri. Ma visto che li trovate già su tutti gli altri siti, io ho pensato di fare pubblicità ad autori meno famosi e assolutamente fantastici.

Info tratte da


Il Lamento di Jaroslavna: un lirismo paganeggiante


Due splendidi testi alto medieovali russi mostrano con chiarezza come le giovani nobildonne potessero provare e manifestare la più profonda passione nei confronti del beneamato in un clima psicologico ancora impregnato di paganesimo. Trattandosi poi di documenti di elaborazione squisitamente letteraria, è lecito pensare che tale attitudine avesse visto la luce nella prima società slava, mettendo le basi di una delle tipologie nascenti (ma ben presto soffocata) delle strutture mentali dell'Est europeo.
Sebbene divise da oltre due secoli, entrambe le evocazioni costituiscono una sorta di "incantesimo", canto d'amore e canto funebre, con il quale due giovani donne piangono la morte o perlomeno la temporanea sparizione del loro cavaliere, dello sposo.

Dal secolo XII ci giunge il lamento di Jaroslavna, principessa che piange la disfatta del consorte, il gran principe Igor', contro i nomadi della steppa.

Cantano le lance sopra il Dunaj (1)
echeggia fino a me la voce di Jaroslavna come il cuculo chiama alla terra estrania fin dal mattino.
Volerò, dice, lungo il Dunaj come il cuculo.
Nel Kajaly (2) immergerò la mia manica di castoro
Detergerò le piaghe sanguinose del principe sul suo corpo robusto
Piange all'alba dal baluardo a Putivl' Jaroslavna dicendo:
O vento, venticello! Perché, o signore, soffi con tanta violenza?
Perché sollevi le saette unghere sulla tua ala noncurante contro i guerrieri del mio sposo?
Non ti basta soffiare in alto sotto le nuvole e dondolare i navigli sul mare azzurro?
Perché, o signore, hai sparso la mia gioia sull'erba verde della steppa?
Piange all'alba dal baluardo di Putivl' Jaroslavna dicendo:
O Dajeper, figlio di Slavuta (3) t'inoltrasti fra i monti petrosi attraverso la terra cumana.
Fino all'orda di Kobjak tu cullasti su te i vascelli di Svjatoslav.
Fino a me, o signore, culla il mio sposo sui flutti, che io non mandi al mattino lacrime a lui verso il mare.
Piange all'alba dal baluardo a Putivl' Jaroslavna dicendo:
Chiaro sole, tre volte chiaro! a tutti caldo e bello tu sei.
Perché, o signore, vibrasti il tuo raggio ardente sui guerrieri del mio sposo, gli archi nell'arido campo seccati a loro d'arsura e d'angoscia ne serrasti i turcassi?

1) Dunaj è il nome russo del Danubio
2) Piccolo fiume che sfociava sul mare e sul quale fu combattuta la battaglia
3) Lo Slavuta è un affluente


Poema sontuoso della passione e dell'amore, il threnos di Jaroslavna rimane di ispirazione affatto pagana. La giovane principessa non invoca il soccorso della chiesa o del dio cristiano, e se ombra di cristianesimo appare è accenno fugace quanto indiretto; sono pagani i Cumani che hanno sconfitto il suo sposo. Viceversa in ogni evocazione compaiono la forza e la potenza degli elementi e della natura, il Vento e il Sole, le antiche divinità degli Slavi.

Né è invocando il dio cristiano che nel secolo XIV si leva il pianto di Eudoesia per la morte del marito Dmitrij Donskoj, ma neppure in esso si rinnova se non molto debolmente il culto votato dagli Slavi alle forze della natura. è questo però un canto d'amore d rara bellezza nel quale si traduce l'altissima dignità del legame che unisce gli sposi.

"Perché sei morto, mio amato, mia vita, lasciandomi vedova e sola? Perché non mi parli? Fiore mio bellissimo, perché di buon'ora appassisci? Perché, Signore, non mi guardi, non parli a me? Di già mi hai dimenticata? Perché non getti uno sguardo gioioso su di me e sui figli? Vecchie vedove consolatemi, e voi, giovani vedove, compiangetemi, perché il dolore di una vedova è il più amaro di tutti".

Come non ripensare alla "Lode al santo principe Lazzaro", intessuta nel 1402 da una principessa serba fattasi poi monaca di clausura con il nome di Eufemia? Celebrando la memoria dell'eroe morto alla battaglia di Kosovo (1389) ella gli rivolge un'ultima preghiera grondante di passione: "Placa la tempesta furiosa della mia anima e del mio corpo"
Risalendo nel tempo ritroviamo un non dissimile impeto amoroso apparentemente sublimato in sacrificio della vita. Questo è almeno quanto sembrano suggerire i riti ottemperati negli strati superiori della società slava precristiana alla morte del capofamiglia.


Qui vediamo il testo più famoso

CANTO DELLA SCHIERA DI IGOR
DI IGOR FIGLIO DI SVJATOSLAV, NIPOTE DI OLEG


Esordio nel ricordo di Bojan

1.    Non sarebbe forse meglio, o fratelli, intonare in stile antico il racconto della schiera di Igor, di Igor figlio di Svjatoslav?
2.    Che invece questo canto esordisca secondo i fatti del nostro tempo, e non secondo la fantasia di Bojan. Ché il vate Bojan, se per qualcuno voleva cantare un canto, si arrampicava come uno scoiattolo sugli alberi, correva per la terra come un lupo grigio, volava sotto le nubi come un'aquila azzurra.
3.    Rievocava, diceva, le battaglie dei tempi andati. Lanciava allora dieci falchi contro uno stormo di cigni, e quale che arrivava a segno intonava per primo un canto in onore dell'antico Jaroslav, per l'ardito Mstislav che trafisse Rededja davanti alle schiere circasse, al bel Roman figlio di Svjatoslav.
4.    Ma Bojan, o fratelli, non dieci falchi lanciava contro lo stormo di cigni: ma posava le sue dita stregate sopra le corde viventi e quelle da sole cantavano ai principi gloria.

Il presagio dell'eclisse

5.    Cominciamo dunque, o fratelli, questo racconto dall'antico Vladimir all'odierno Igor, il quale temprò la mente con la volontà, infiammò il cuore con il coraggio, e ricolmo di spirito guerriero condusse le sue valorose schiere oltre la terra russa, in terra polovesiana.
6.    Alzò Igor lo sguardo al sole lucente e vide che da esso veniva un'ombra che copriva le schiere.
7.    E disse Igor alla sua družina: - Fratelli e družina, è meglio morire che essere fatti prigionieri. Montiamo perciò, o fratelli, sui nostri veloci destrieri per guardare l'acqua dell'azzurro Don!
8.    S'infiammò al principe il cuore per il desiderio di guerra e la brama di bere l'acqua dell'azzurro Don gli rese oscuro il presagio.
9.    Disse: - Con voi o Russi, voglio spezzare la mia lancia sul confine del campo cumano; voglio sacrificare la mia testa o bere con l'elmo l'acqua del Don!

La schiera di Igor marcia verso la battaglia

10.    O Bojan, usignolo del tempo antico! Se fossi stato tu a celebrare queste imprese, saltando come un usignolo sugli alberi, volando con la mente sotto le nubi, congiungendo le due ali della gloria dei nostri tempi, percorrendo il sentiero di Trojan, attraverso i campi e verso le montagne, così, intoneresti questo canto per suo nipote Igor:
11.    «Non la tempesta ha portato i falchi attraverso le ampie distese: stormi di cornacchie fuggono verso il grande Don.»
12.    Invece così avresti dovuto cantare, o profetico Bojan, nipote di Veles:
13.    «I cavalli nitriscono oltre la Sulà, risuonano inni di gloria a Kiev, squillano le trombe a Novgorod, si alzano gli stendardi a Putivl'.»

L'incontro di Igor e Vsevolod

14.    Igor aspetta Vsevolod, il caro fratello.
15.    E gli disse Vsevolod, Toro Impetuoso:
16.    «Unico fratello, unica mia luce, o tu, Igor! Siamo entrambi figli di Svjatoslav!
17.    «Sella, fratello, i tuoi veloci destrieri, ché i miei son già pronti, sellati per te nei pressi di Kursk. E ti saranno compagni i miei esperti guerrieri kuriani, al suono delle trombe fasciati, sotto gli elmi cullati, sulla punta della spada allattati. A loro sono note le strade, conosciuti i sentieri. Hanno gli archi ben tesi, aperte le faretre, le sciabole affilate. Corrono nel campo come lupi grigi, per sé onore cercano e per il principe gloria!

Incursione delle schiere russe nel campo polovesiano

18.    Allora montò il principe Igor sulla staffa d'oro e galoppò nel campo aperto.
19.    Il sole gli sbarrò il cammino di tenebra. La notte gemette tempesta, risvegliando gli uccelli. Si levò l'ululato ferino delle belve. Gridò Div dall'alto di un albero, affinché lo udisse la terra straniera: la Vol'ga e il litorale di Crimea, e Surož, e l'Oltresulà, e il Chersoneso, e te, grande idolo di Tmutorokan'!
20. I Polovesiani fuggono per ignoti sentieri verso il grande Don. Stridono i carri nella notte, come cigni atterriti. Igor conduce la schiera verso il Don.
21.    Ma per sua sciagura dall'alto delle querce lo guata Div in forma di uccello. Nei dirupi ululano i lupi alla tempesta, le aquile stridono chiamando le belve al banchetto, ganniscono le volpi contro gli scudi scarlatti.
22. Sei già oltremonte, terra di Rus'!
23.     A lungo s'abbuia la notte. L'alba si accende di luce. La nebbia ricopre i campi. Si è assopito il trillo degli usignoli, il gracchiare delle cornacchie si è destato.
24.     Con gli scudi scarlatti i Russi ricoprono campi immensi, cercando per sé onore e per il principe gloria.
25.     All'alba di venerdì, travolsero le orde pagane dei Polovesiani e, spargendosi come frecce per il campo, rapirono le belle fanciulle cumane, e presero oro, e sete e preziosi broccati. E con mantelli, gualdrappe e pellicce, con ogni gemmato tessuto cumano si misero a gettar ponti su paludi e fangosi pantani.
26. Rosso stendardo, bianco gonfalone, vessillo scarlatto, argentea insegna per il prode figlio di Svjatoslav!

Riscossa dei Polovesiani

27.     Dorme nel campo l'ardito nido di Oleg, si è involato lontano! Ma non era nato per subire l'offesa del falco, né quella dello sparviero, né la tua, nero corvo cumano!
28. Corre Gzak, come lupo grigio, Končak gli traccia il cammino verso il grande Don.
29. L'indomani un'aurora di sangue annuncia la luce. Nere nubi avanzano dal mare, vogliono oscurare i quattro soli, dentro vi fremono fosche saette. Dovrà scoppiare una possente tempesta, dovrà scrosciare una pioggia di frecce dal grande Don! Qui le lance si spezzeranno, andranno in pezzi le spade contro gli elmi cumani, sul fiume Kajala, presso il grande Don!
30.     Sei già oltremonte, terra di Rus'!
31.    Ecco i venti, nipoti di Stribog, soffiano le frecce dal mare contro la schiera valorosa di Igor. Rintrona la terra, scorrono torbidi i fiumi, la polvere copre i campi, gridano gli stendardi:
32.    «Avanzano i Polovesiani dal Don, dal mare e da ogni dove, le schiere russe sono circondate. I figli di Bes riempiono di grida la steppa, i valorosi Russi gli sbarrano il passo con gli scudi scarlatti!»

Vsevolod, Toro Impetuoso
33.     O Vsevolod, Toro Impetuoso! Piantato in difesa, tu rovesci le frecce contro i nemici, fai rintronare sugli elmi le spade di acciaio brunito.
34.     Dovunque tu balzi, col tuo splendido elmo d'oro, là cadono le teste pagane dei Polovesiani, dalla tua sciabola son frantumati gli elmi àvari. Per opera tua, Vsevolod, Toro Impetuoso!
35.     Che importano le ferite, fratelli, a colui che sprezzò onori e ricchezze, l'aureo trono del padre nella rocca di Černigov, e l'amore e le carezze della sposa diletta, la bella figlia di Gleb?

Oleg, il seminatore di discordie

36.     Sono lontani i tempi di Trojan, lontani gli anni di Jaroslav: ci furono le imprese di Oleg, Oleg figlio di Svjatoslav. Ché Oleg invero con la spada temprò la discordia, di frecce seminò la terra.
37.     Saliva Oleg sulla staffa d'oro, nella città di Tmutorokan', e ne udiva il suono il grande, vecchio Vsevolod, nipote di Jaroslav, mentre Vladimir a Černigov si turava le orecchie.
38.     La brama di gloria trasse Boris figlio di Vjačeslav al giudizio e sul Kanin gli fu steso un verde sudario per l'offesa arrecata ad Oleg, valente e giovane principe.
39.     Così dal fiume Kajala ordinò Svjatopolk che il padre suo fra destrieri ungheresi fosse portato a Santa Sofia in Kiev.
40. Al tempo di Oleg figlio di Amara Gloria, si seminavano e crescevano le discordie, periva la potenza dei nipoti di Daž'bog e nelle contese dei principi si accorciava la vita alla gente.
41.    Di rado il contadino cantava nell'arare la terra: più spesso i corvi gracchiavano contendendosi tra loro i cadaveri e nella loro lingua le cornacchie si chiamavano per invitarsi al banchetto.
42.     Questo accadeva in quelle guerre e in quelle campagne, ma di una simile impresa mai s'era udito parlare!

La sconfitta di Igor

43.     Dall'alba alla sera, dalla sera all'alba, volano frecce temprate, scrosciano sciabole contro elmi, crepitano lance di acciaio brunito, nel campo straniero, nella terra cumana.
44. Sotto gli zoccoli la nera terra è seminata di ossa, irrigata di sangue. Con dolore nel campo sono periti in nome della terra di Rus'.
45.     Qual strepito io sento, che cosa risuona lontano, prima dell'alba?
46. Igor volge indietro le schiere, ha pietà di Vsevolod, il caro fratello! Combatterono un giorno, combatterono il secondo, il terzo giorno al meriggio caddero le insegne di Igor.
47.     Qui si separarono i fratelli, sulla riva del rapido Kajala. Qui più non bastava il vino di sangue e misero fine al banchetto i bravi guerrieri: diedero da bere ai compagni e caddero per la terra di Rus'.
48. Si piega l'erba per il dolore, a terra per il dolore si chinano gli alberi!


La discordia e il dolore opprimono la terra russa

49. Perché ormai, o fratelli, è sorto il tempo del dolore e la steppa ha sopraffatto le schiere! Perché la sconfitta si è levata sulle le schiere del nipote di Daž'bog; come una fanciulla è sorta sulla terra di Trojan e ha agitato ali di cigno sul mare nemico, presso il Don; battendo le ali ha disperso i tempi dell'abbondanza.
50.     È venuta meno la lotta dei principi contro i pagani, ché disse il fratello al fratello: «Questo è mio ed anche questo è mio!» Di ogni piccola cosa i principi dicevano «è grande!», forgiando tra loro la discordia. Intanto i pagani giungevano da ogni dove, vittoriosi in terra russa.
51.    Oh, lontano s'involò il falco, sterminando gli uccelli fino al mare!
52.     Più non risorgerà l'ardita schiera di Igor!
53.     Dietro di lei gridò il dolore, e il pianto corse per la terra russa, agitando il fuoco nel funebre corno!
54.     Proruppero in lacrime le donne russe nel dire: «A noi ormai i cari sposi più non è dato né in pensiero pensare, né in idea ideare, né con gli occhi guardare, né oro e argento con la mano sfiorare.»
55.     E gemette, fratelli, Kiev nel dolore, e Černigov nell'avversità. L'afflizione corse sulla terra di Rus', una grande mestizia si sparse nella terra di Rus'. E mentre i principi forgiavano tra loro le discordie, i pagani irrompevano vittoriosi nella terra russa, esigendo un tributo ad ogni focolare.

Elogio di Svjatoslav

56.     Questi due prodi, i figli di Svjatoslav, Igor e Vsevolod, ridestarono l'ostilità: quell'ostilità che il terribile gran principe di Kiev, il loro signore Svjatoslav, aveva a suo tempo assopito con la forza. Quale tempesta, aveva fatto tremare i pagani con le sue possenti schiere; con spade di acciaio brunito si era inoltrato in terra cumana, aveva calpestato colline e dirupi, resi torbidi torrenti e paludi, strappato come un turbine il pagano Kobjak dall'arco del mare, dalle ferree orde cumane. Ed era stato trascinato Kobjak nella città di Kiev, fin nella vasta sala di Svjatoslav.
57.     E ora i Tedeschi e i Veneziani, i Greci e i Moravi cantano gloria a Svjatoslav ma compiangono il principe Igor, che ogni ricchezza ha sprofondato nel Kajala, nel fiume cumano l'oro russo ha disperso.
58.     Qui il principe Igor è smontato dalla sella d'oro ed è salito su quella del prigioniero. Triste fu la gente. Sui bastioni delle città venne meno la gioia.

Il sogno di Svjatoslav

59. Intanto Svjatoslav ebbe un sogno confuso:
60. «Nella rocca di Kiev, questa notte, mi rivestivano sul far della sera di un nero sudario sopra un letto di tasso, mi mescevano vino fosco mescolato a dolore, dalle vuote faretre dei traduttori pagani una bella perla lasciavano sul mio petto cadere.
61.     «E cantano il lamento per me. Già hanno tolto la trave centrale nel mio terem dalla cupola d'oro!
62. «Sin dalla sera, per tutta la notte, hanno gracchiato i corvi demoniaci nelle paludi di Plesensk: venivano da Kisan' e verso il fosco mare volavano.»
63.     E dissero i boiari al principe: «Già il dolore, o principe, ha serrato la tua mente, ché i due falchi sono volati lontano dal trono d'oro del padre, a conquistare la città di Tmutorokan' o per bere con l'elmo l'acqua del Don. Già le ali ai due falchi tarparono le sciabole cumane ed essi con catene di ferro furono avvinti.
64. «Il terzo giorno vinse la tenebra, i due soli si oscurarono, si spensero le due colonne di porpora; e con loro le due giovani lune Oleg e Svjatoslav si avvolsero di tenebre, scomparvero nel mare e dettero gran tripudio alla gente nemica.
65.     «Sul fiume Kajala l'ombra ha coperto la luce e si sparsero i Polovesiani come una cucciolata di ghepardi.
66. «Già il disonore ha sommerso la gloria, la schiavitù ha schiacciato la libertà, già Div è piombato sulla terra di Rus' e le belle fanciulle dei Goti cantano sulle rive del mare: cantano i tempi di Bus, celebrano la vendetta di Šarokan. Ma noi, o družina, siamo privi di gloria.»

L'aureo discorso del gran principe

67. Allora il grande Svjatoslav proruppe in un aureo discorso mescolato col pianto:
68.  «O nipoti miei, Igor e Vsevolod! Troppo presto cominciaste a offendere con la spada la terra cumana, in cerca di gloria: ma nel disonore vi siete battuti, nel disonore avete versato il sangue pagano.
69. «I vostri cuori arditi sono forgiati in acciaio crudele e nel furore temprati. Perché avete fatto questo alla mia canizie d'argento?
70. «Più non vedo il forte potere, le ricchezze e le schiere del fratello mio Jaroslav, con i nobili di Černigov, i Moguti, i Tatrani, gli Šelbiri, i Topčaki, i Revughi e gli Olberi. Costoro senza scudi, coi soli pugnali, gridando sbaragliano le schiere, facendo risuonare la gloria degli avi.
71.    «Ma voi diceste: combattiamo da soli, da soli dividiamo la gloria futura e la passata supereremo! Ma non è forse strano, o fratelli, che il vecchio ringiovanisca? Quando un falco muta le penne, in alto caccia gli uccelli, né lascia che saccheggino il suo nido. Ma ecco il male: i principi non mi vengono in aiuto e il tempo si è volto in sciagura.
72.    «Ecco che a Rimov gridano sotto le spade cumane, e Vladimir piange per le ferite: dolore e angoscia al figlio di Gleb!»

Appello ai principi

73.     Gran principe Vsevolod! Non dovresti accorrere da lontano solo col pensiero a difendere il trono d'oro del padre! Tu solo puoi battere coi remi la Vol'ga e attingere con l'elmo l'acqua del Don! Se tu fossi stato qui, o principe, a un soldo si venderebbero le schiave e uno schiavo un centesimo! Perché tu puoi lanciare vive lance di fuoco, con gli arditi figli di Gleb!
74.     O tu, impetuoso Rjurik, e tu, Davyd! Non sono stati i vostri ardenti guerrieri a nuotare nel sangue fino agli elmi d'oro? Non sono stati i vostri valorosi eserciti a ruggire come tori selvaggi, straziati da sciabole temprate, in terra straniera? Salite, o signori, sulla staffa dorata, per vendicare l'offesa di questo tempo, per la terra di Rus', per le ferite di Igor, valoroso figlio di Svjatoslav!
75.     Jaroslav dall'ottuplice pensiero, principe di Galizia! Alto siedi sul tuo trono dorato e reggi i monti ungheresi con le tue schiere ferrigne, e al re magiaro sbarri la strada, chiudendo le porte al Dunaj, scagliando macigni oltre le nubi, amministrando la giustizia fino al Dunaj. Scorrono le tue minacce per le terre, tu apri le porte di Kiev; dall'aureo trono paterno tu frecci i sultani oltre le terre; folgora dunque, o signore, anche il pagano Končak! Per la terra di Rus', per le ferite di Igor, valoroso figlio di Svjatoslav!
76. E tu impetuoso Roman, e tu Mstislav! Ardimento e passione conducano la vostra mente all'impresa!
77.     In alto levato nell'intrepida impresa, come falco che si libra sui venti, quando nel suo furore attacca gli altri uccelli. Avete corazze di ferro sotto gli elmi latini. Per esse tremò la terra e molti popoli: Unni e Lituani, Jatvinghi e Deremeli, Finni e Polovesiani: gettarono i loro giavellotti e chinarono il capo sotto queste spade d'acciaio.
78. Ma ormai, o principe, per Igor si è spenta la luce del sole mentre all'albero tristi son cadute le foglie: lungo la Ros' e la Sulà i nemici si son spartiti le città, ma più non risorgerà l'ardita schiera di Igor!
79. Il Don ti invoca, o principe, e chiama i principi alla riscossa. Ma la valorosa schiatta di Oleg non è più sul piede di guerra...
80. Ingvar e Vsevolod, e tutti e tre voi, figli di Mstislav! Serafini dalle sei ali di non ignobile nido! Non per vittorie fratricide diventaste signori dei vostri domini! Dove sono i vostri elmi dorati e le spade polacche e gli scudi? Sbarrate le porte alla steppa con le frecce puntute, per la terra di Rus', per le ferite di Igor, valoroso figlio di Svjatoslav!
81.    Più non scorre la Sulà coi suoi flutti d'argento per la città di Perejaslavl', né la Dvinà paludosa per la città di Polock, ma sotto il grido di guerra pagano! Solo Izjaslav figlio di Vasil'ko fece risuonare le spade affilate contro gli elmi lituani superando la gloria dell'avo Vseslav!
82. E cadde egli stesso sotto gli scudi scarlatti, falciato sull'erba insanguinata dalle spade lituane. E disse, come con la sposa sul letto nuziale: «La tua družina, o principe, coprirono gli uccelli con le ali e le fiere ne leccarono il sangue.»
83.     Né c'era colà il fratello Brjačislav, né l'altro fratello Vsevolod. Da solo, l'anima di perla esalò dal fiero corpo, attraverso l'aurea collana. Divennero meste le voci, venne meno la gioia. Piangono le trombe a Gorodec.
84. O figli di Jaroslav e voi tutti nipoti di Vseslav! Tempo è di abbassare le insegne e di riporre nel fodero le logore spade. Già vi siete allontanati dalla gloria degli avi! Voi, con le vostre contese, cominciaste a far venire i pagani nella terra di Rus', sui possedimenti di Vseslav. Per le lotte intestine si scatenò la violenza dalla terra cumana!

Vseslav, il principe stregone

85.     Nella settima età di Trojan, gettò Vseslav le sorti per la fanciulla che tanto desiderava. E promettendo astutamente i cavalli, volò fino alla città di Kiev e con la lancia sfiorò il trono d'oro di Kiev.
86. Subito balzò lontano da Kiev, come belva feroce correndo a mezzanotte da Belgorod, ammantato di azzurra bruma. Il mattino conficcò le asce, aprì le porte di Novgorod e distrusse la gloria di Jaroslav.
87. Balzò qual lupo da Dudutki fino al fiume Nemiga. E là sulla Nemiga fanno covoni di teste, trebbiano con catene di ferro, gettano le vite sull'aia, vagliano le anime dai corpi.
88. In tristo modo furono seminate le sponde insanguinate della Nemiga, furono seminate con le ossa dei figli di Rus'.
89. Il principe Vseslav amministrava la giustizia, e governava i principi delle città, nella notte però galoppava come lupo, prima del canto del gallo correva da Kiev fino a Tmutorokan' e tagliava la strada al grande Chors.
90. Per lui suonavano a mattutino le campane di Santa Sofia a Polock ed egli a Kiev ne udiva i rintocchi.
91.    Benché avesse un cuore di stregone in quel doppio corpo, nondimeno patì sventure.
92. Per lui il vate Bojan per primo proferì queste parole: «Né all'astuto, né al sapiente, né all'esperto stregone è dato sfuggire il giudizio di Dio».

Il pianto della terra di Rus'

93.     Oh, pianga la terra di Rus' ricordando gli anni passati e i principi di una volta!
94. Quell'antico e saggio Vladimir, impossibile inchiodarlo nel suo palazzo tra i colli di Kiev. I suoi stendardi sono oggi quelli di Rjurik e quelli di Davyd: ma disgiunti sventolano i drappi, le une contro le altre cantano le lance!

La fuga del principe Igor

99. S'increspa il mare di mezzanotte, avanzano turbinando le nuvole, al principe Igor Dio indica la strada dalla terra cumana alla terra russa, dov'è il trono d'oro degli avi. I bagliori del tramonto si sono spenti.
100. Igor dorme. Igor veglia. Igor misura col pensiero la terra dal grande Don al piccolo Donec.
101. A mezzanotte Ovlur fischia chiamando i cavalli oltre il fiume. Intima al principe di prepararsi.
102. Il principe Igor non c'è più!
103. Grida, rintrona la terra, fruscia l'erba! C'è agitazione tra i carri polovesiani.
104. Fugge intanto il principe Igor, ermellino tra i canneti, bianca anatra sull'acqua, balza sul veloce destriero e da esso salta giù come lupo grigio, corre fino alla valle del Donec, volando come un falco sotto le nubi, strage di oche e cigni facendo per colazione, pranzo e cena.
105. Se Igor volava come falco, trottava Vlur come lupo, scuotendo di dosso la gelida rugiada. E sfiancarono i veloci destrieri.

Dialogo del principe Igor col fiume Donec

106. Disse il Donec: «O principe Igor! Non piccola è la tua gloria, mentre a Končak vergogna e gioia alla terra di Rus'!»
107. Igor disse: «O Donec, non piccola è la tua gloria, per aver cullato il principe sulle tue onde, avergli steso erba verde sulle tue sponde d'argento, averlo avvolto di calde brume sotto un albero verde, per averlo vegliato come un'anatra sull'acqua, come un gabbiano sull'onda, come una folaga nel vento!
108. «Non così,» disse, «il fiume Stugna che con scarsa corrente, dopo aver superato gli altri ruscelli e torrenti, si apre verso la foce. Il principe Rostislav inghiottì nel suo fondo. Presso la buia riva, piange la madre di Rostislav, piange la madre del giovane principe Rostislav, intristiti appassiscono i fiori, per l'angoscia si piegano gli alberi a terra.»

Gzak e Končak inseguono il principe Igor

109. Non sono state le gazze a gracchiare, ma Gzak e Končak che inseguono il principe Igor.
110. Non gracchiano i corvi, tacciono le cornacchie, non strillano le gazze. Solo strisciano i serpi. E i picchi coi colpi del becco indicano la direzione del fiume. Con canti gioiosi gli usignoli annunciano l'alba.
111.    Dice Gzak a Končak: «Se il falco vola al nido, il giovane falco frecceremo con le nostre frecce d'oro.»
112. Dice Končak a Gzak: «Se il falco vola al nido, il falchetto incateneremo con una bella fanciulla.»
113. E dice Gzak a Končak: «Se lo incateneremo con una bella fanciulla, a noi poi non rimarrà né il falchetto né la bella fanciulla, allora cominceranno ad abbattere i nostri uccelli nella distesa cumana.»

Ancora una volta, la parola a Bojan

114. Così disse Bojan nel cantare le imprese dei figli di Svjatoslav, Bojan il cantore dei tempi passati, di Jaroslav e di Oleg e della sposa del kagan':
115. «È doloroso per te, o testa, senza il corpo, ed è pesante per te, o corpo, senza la testa.»
116. Così per la terra di Rus' senza Igor.

Il ritorno del principe Igor

117. Il sole splende in cielo, il principe Igor è in terra di Rus'.
118. Cantano le fanciulle sul Dunaj, intrecciano le voci dal mare fino a Kiev.
119. Igor scende per la via di Boričev fino a Nostra Signora della Torre. Le province sono felici, le città liete.

Fine del poema

120. Abbiamo intonato un cantico ai vecchi principi, ora ai giovani si deve cantare: «Gloria a Igor figlio di Svjatoslav, e a Vsevolod Toro Impetuoso, e a Vladimir figlio di Igor!»
121. Salute ai principi e alla družina, che si battano per i Cristiani contro le schiere pagane.
122. Gloria ai principi e alla družina!
123. Amen


Questi sono due dei poeti più famosi


FEDOR TJUTCEV

"Sera d'Autunno" (1830)

Nella chiarezza v'è delle autunnali
sere un tenero, misterioso incanto:
lo splendore degli alberi sinistro,
il languido frusciare delle foglie
porporine, il velato e calmo cielo
sopra la terra triste e desolata,
e, annunzio delle prossime bufere,
un brusco, freddo vento qualche volta,
un mancare e sfinirsi - e quel sorriso
mite di sfioritura, su ogni cosa,
che in essere senziente noi chiamiamo
sacro pudore della sofferenza.


"Mal'aria" (1830)

Amo questo divino sdegno, questo celato,
questo segreto Male, presente in ogni cosa:
nei fiori, nella fonte diafana come vetro,
negli irridati raggi, fin nel cielo di Roma.
Lo stesso firmamento sgombro di nubi, eccelso,
e parimenti il petto leggero e dolce spira,
lo stesso vento caldo che dondola le cime,
lo stesso odor di rose: e tutto questo è Morte!


"Mattino di Dicembre"  (1859)

La luna in cielo, e imperturbata
l'ombra notturna è tuttavia:
regna tranquilla, senza darsi conto
che il giorno ormai già s'è scrollato,
che, sebben pigri e dubitosi,
l'uno s'aggiunge all'altro raggio
nel mentre il cielo del notturno
trionfo tutto ancora splende.
Ma non andranno due, tre istanti,
vaporerà la note dalla terra,
e col fulgore delle apparizioni,
ci avrà afferrati il mondo diurno....

Ancora è triste il volto della terra,
ma l'aria spira primavera
e dondola nel prato il morto stelo
ed agita le rame degli abeti.
Ancora la natura non è desta,
ma di tra il meno fondo sonno
la primavera essa ha sentito
e involontariamente le ha sorriso...
Anche tu, anima, dormivi...
Ma che d'un tratto ti sommuove,
carezza e bacia il sonno tuo
ed i tuoi sogni indora?... splende
ogni zolla di neve si discioglie,
splende l'azzurro, ferve il sangue....
è la delizia della primavera
questa?... è l'amore d'una donna?....


ANNA ACHMÀTOVA

No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
neri drappi lo ricoprano
e portino via le lanterne.
Notte.

(da "Requiem" 1935-1940)



E quel cuore più non risponderà
alla mia voce, esultante e afflitto.
Tutto è finito... e il mio canto risuona
nella notte, ove più tu non sei.

(1956)


Dal dramma "Prologo" (1963)

Si ode lontano:

accarezzando spaventi, offendi supplicando
entri senza bussare.
Tutto sarà con te piacere,
perfino lasciarsi.
Si spande pure nella sorte nefasta
la schiuma scarlatta,
ma risuoni come giuramento a te
perfino il tradimento...
di colei che conobbe il terrore e l'onore
d'una vita d'oltretomba...
pronunciare il tuo nome ora per me
è come morire.


Di nuovo l'autunno irrompe come un tamerlano,
nei vicoli dell'arbat c'è silenzio.
Al di là della stazioncina o della nebbia
è nera la strada impraticabile.
Ordunque, è l'ultimo! anche il furore cessa.
Non importa che il mondo si sia fatto sordo...
Possente vecchiezza del vangelo
e quell'amarissimo sospiro del Gethsemani

(1957)


"Primo preavviso" (1963)

In fondo che cosa c'importa
che tutto si tramuti in cenere,
su quanti abissi ho cantato
in quanti specchi ho vissuto?
Che io non sia né sonno né gioia
e meno di tutto, grazia beatificante
ma, forse, più di quanto necessiti
ti toccherà rammentare
e il rombo dei versi smorzantisi,
e l'occhio che al fondo nasconde
quel rugginoso serto pungente
nel suo silenzio angoscioso


Infine, uno dei capolavori russi!, uno dei miei libri preferiti da decenni!
Un estratto del bellissimo "Il Demone" di Michail Jur'evic Lermontov.



I

Il proscritto dal cielo, il triste Demone
volava sulla terra dei peccati,
ed i ricordi dei felici giorni
si affollavan nella sua memoria:
dei giorni in cui nelle celesti plaghe
Egli luceva puro cherubino
e la cometa fuggiva a Lui
un amico saluto rivolgeva,
e amabilmente Gli parlava. Allora
attraversando le eterne nebbie,
avido di conoscenza, seguiva
le nomadi carovane di stelle
nelle plaghe del cielo immense sparse;
quando credeva ed amava: felice
primogenito di tutto il creato!
Non conosceva il dubbio e non il male,
né minacciava la sua mente lunga
di sterili tempi serie dolente...
E molte, e molte altre cose, e di tutto,
di ricordar la forza non aveva.


II

Respinto da remoti tempi, errava
senza asilo nel deserto del mondo:
e i secoli inseguivano i secoli
come un minuto dietro l'altro in una
successione monotona e annoiante;
Signore di una terra miserabile
senza piacere seminava il male.
In nessun luogo trovava la sua arte
una qualche resistenza, e per questo
anche il male Gli diventò noioso.


III

Sulle vette del Caucaso volava
l'esule dal Paradiso: c'era sotto
di Lui il Kazbek, la faccia d'un diamante,
che risplendeva con le eterne nevi,
e nereggiando nel profondo, quasi
una crepa dimora della serpe,
la sinuosa valle del Darjal:
e il Terek, saltando come leonessa,
la villosa criniera sulla schiena,
ruggiva: belve montane e uccelli
girando nell'altitudine azzurra
sentivano la voce delle sue acque;
e le nubi dorate, di lontano,
dalle terre del sud lo accompagnavano
verso le plaghe del settentrione;
e le montagne in fitta folla, colme
di misterioso sonno su di lui
chinavano la testa, inseguendo
le baluginanti onde.
Sulle rocce le torri dei castelli
minacciose tra le nubi guatavano
di sentinella alle porte del Caucaso,
come maestosi giganti guardiani!
Selvaggio e meraviglioso era intorno
tutto il mondo di Dio, ma lo spirito
orgoglioso, con sguardo di disprezzo
considerava il creato di Dio,
del suo Signore, e sulla sua alta fronte
non si rifletteva pensiero alcuno.


IV

E dinanzi a lui le bellezze vive
fiorirono d'un altro quadro: della
Georgia meravigliosa le valli
come tappeti dipinti si aprivano;
lussureggiante, felice paese!
I pioppi come colonne, i ruscelli
che sonanti scorrevano sul fondo
di pietre variopinte ed i cespugli
dove cantan gli usignoli alle belle
che non rispondono alla dolce voce
del loro amore, e dove la sua ombra
sparge dolce il platano fronzuto,
dove le grotte sono avvolte d'edera
intricata, rifugio nell'ardente
calura del giorno al timido cervo;
vita, splendore, e mormorio di foglie,
lingua di cento voci risonanti
e di mille alberi e piante il respiro!
Del meriggio il caldo voluttuoso,
le notti umide sempre di rugiada
profumata e le stelle luminose
come lo sguardo di una bella donna,
di una giovane georgiana!...
Ma nient'altro che una fredda invidia
suscitava la splendida natura
nello sterile cuore del proscritto,
non nuovi sentimenti, o forze nuove.
E tutto quello che egli vedeva,
lo disprezzava, oppur lo odiava. 

[...]


VI

Colma d'angoscia e di tremore, stava
Tamara spesso alla sua finestra
e con in testa un unico pensiero
con occhio attento guardava lontano:
e tutto il giorno, sospirando, aspetta...
A lei qualcuno mormora: verrà!
E non invano erano dolci i sogni,
e non invano egli appariva a lei,
con i suoi occhi colmi di tristezza
con tenera voce meravigliosa
da molti giorni ormai ella languisce
senza saperne lei stessa il motivo:
ora desidera pregare i santi,
ma il cuore manda la preghiera a Lui;
stremata dalla lotta quotidiana,
sul letto del riposo ora si corica:
il suo cuscino brucia. E soffoca
Tamara, ed ha paura, e trema tutta.
Ed il suo petto avvampa, e le sue spalle,
più non respira, negli occhi ha la nebbia,
avida attende che l'abbracci e stringa,
e sulla bocca si sciolgano i baci...



VII

L'aereo mantello della sera
già ricopriva i colli della Georgia.
Obbediente al suo dolce costume
al monastero il Demone volava.
Per lungo tempo Egli non osò
turbare la santità di quel placido
e mite asilo. E ci fu un momento
in cui gli parve giusto abbandonare
il suo crudele intento. Eccolo errare,
nel suo pensiero assorto, presso il muro
del convento: e tremola una foglia
nell'aria senza il vento della sera.
Alla finestra splende una lucerna:
la guarda il Demone. Tamara attende.
E nel silenzio dominante ascolta
lo spirito un suono di cingura (*) :
d'una canzone echeggiano le note,
i dolci e tristi suoni confluiscono,
come lacrime, in ritmo armonioso;
tenera e bella è la canzone, come
se per la terra l'avessero creata
musici angeli su nell'alto cielo!
E forse proprio un angelo bramava
di riveder l'amico di lontani
tempi remoti, e quaggiù volato
era furtivamente, e gli cantava
per consolarlo, del passare del tempo.
E solo allora il Demone capì
l'angoscia dell'amore e l'emozione.
Voleva allontanarsi, nel terrore...
Ma non riusciva a muovere le sue ali!
E, che prodigio! Dai suoi spenti occhi
ecco che scese una lacrima di piombo.
Ancora oggi presso quella cella
sta la pietra trafitta dall'ardente,
dalla lacrima ardente come fiamma,
la lacrima dell'Angelo Perduto!...

(*) La cingura è una specie di chitarra georgiana.


VIII

Ed Egli entra, è pronto ad amare,
con l'anima ad ogni bene aperta,
e pensa che di una vita nuova
è finalmente giunto il tempo atteso.
Il tremito confuso dell'attesa,
una paura silenziosa e incerta,
quasi fosse d'amore il primo incontro,
questo conobbe l'anima orgogliosa.
Era solo un triste presentimento.
Entra: e vede che davanti a lui stava,
messaggero del cielo, un cherubino,
aiuto per la bella peccatrice:
l'Angelo sta, col volto fiammeggiante
con l'ala la protegge dal nemico,
il suo sorriso è limpido e chiaro.
Della divina luce un raggio d'oro
l'impuro sguardo ad un tratto acceca,
così invece di un tenero saluto,
ascolta il Demone una rampogna:


IX

"Spirito inquieto, spirito del Male,
chi ti ha chiamato nella notturna ora?
Non c'è nessuno qui dei tuoi devoti,
e qui il Male non ancora spira.
Non avanzare il criminoso passo
verso l'amore sacro, il mio amore.
Chi ti ha chiamato?"
Ed in risposta a lui
perfido rise l'Angelo Maligno,
E di gelosia arse il suo sguardo,
e di nuovo si risvegliò nell'anima
tutto il veleno del suo odio antico.
"Tamara è Mia!" - disse minaccioso -
"Lasciala stare, ché Tamara è Mia!
Troppo tardi apparisti, difensore,
suo giudice non sei, e neppur mio.
Sul mio cuore, ch'è gonfio di Superbia
già ho stampato il mio sigillo forte;
al tuo sacrale imperio qui non c'è posto,
questo è il mio regno, questo il mio amore!"
e l'Angelo del Cielo tristemente
volse gli occhi alla povera Tamara
e agitando tristemente l'ali
nell'etere celeste sprofondò.



X

TAMARA:

Chi sei? è pericolosa la tua voce.
Vieni dal cielo o dall'inferno?
Che cosa vuoi da me?


IL DEMONE:

Tu sei bellissima!


TAMARA:

Parlami dunque. Di' chi sei. Rispondi.


IL DEMONE:

Io sono Colui la cui voce ascoltavi,
tu, nel silenzio della mezzanotte,
il cui pensiero all'anima parlava,
la cui tristezza tu riconoscesti,
la cui immagine vedevi in sogno.
Il mio sguardo uccide ogni speranza;
Io son colui che nessuno può amare.
Dei miei terreni schiavi son la frusta,
sono Il Signore di Scienza e Libertà:
Nemico del Cielo, son della Natura
Il Male. E sono qui, ai piedi tuoi!
Per la tua tenerezza t'ho portato
la placida preghiera dell'amore,
il mio primo dolore sulla terra,
e le lacrime prime che ho versato.
Ascoltami, ti prego, per pietà.
Soltanto tu con la tua voce puoi
restituire me al bene e al Cielo.
Protetto dal mantello del tuo amore
a Me sarà concesso di salire
lassù, Angelo Nuovo in Nuova Luce;
O, ti prego: ascoltami soltanto:
Io sono il tuo schiavo. E ti amo!
Ché, non appena Io ti ho veduta,
nel mio cuore segreto ho odiato
la mia immortalità ed il potere.
E involontariamente ho invidiato
l'imperfetta gioia della gente;
ho provato il dolore di non vivere
come te, e l'orrore d'esserti lontano.
Un inatteso raggio nel mio cuore
più caldo e vivo di nuovo s'è acceso,
e la tristezza della ferita antica,
come un serpente, s'è mossa. Che importa
a me senza di te la vita eterna?
Dei miei possessi il numero infinito?
Solo vuote parole senza senso,
una vasto tempio, ma senza il dio.


TAMARA:

Lasciami dunque, o spirito maligno!
Come posso mai credere al nemico?
Aiutami, Signore! Ma non posso
pregare. Come un veleno misterioso
indebolisce ormai la mia mente!
Ascolta dunque, tu che mi uccidi:
le tue parole son veleno e fuoco...
Dimmi almeno per quale scopo tu mi ami!


IL DEMONE:

Perché non so, bellissima Tamara.
Mi sento colmo di una nuova vita,
mi son tolto dall'ardita testa
la corona di spine della colpa,
in polvere ho gettato il mio passato:
l'Inferno e il Paradiso è nei tuoi occhi.
Di non terrestre passione Io ti amo.
Un tale amore ricambiar non puoi.
Con tutto il mio potere, con l'ebbrezza,
dell'Immortale mio pensiero e sogno.
Dal principio del mondo, a me nell'Anima,
sta impresso il sigillo del tuo volto:
il tuo volto lo vedevo a me davanti
nei deserti del sempiterno cielo.
Da tanto tempo inquieta la mia anima
la risonanza dolce del tuo nome.
Nei giorni della vita in Paradiso
soltanto tu mancavi, solo tu.
Magari tu comprendere potessi
quel mio languire amaro, la mia vita
tutta la vita per infiniti secoli,
di amara gioia e amara sofferenza.
Senza attendermi lodi per il male,
e senza ricompense per il bene,
per sé solo vivere, e nella noia,
e in questa lotta senza mai vittoria,
in questa lotta senza mai la pace!
Aver sempre rimpianti e non averli,
tutto sapere, sentire e vedere,
cercare di odiare sempre tutto
e disprezzare proprio tutto al mondo!...
E sol quando la condanna di Dio
fu pronunciata, proprio da quel giorno
per sempre gelidi per me divennero
della natura i caldi abbracci.
Era azzurro lo spazio a me davanti,
ed io vedevo, come adorne a nozze
le belle stelle, a me ben conosciute...
esse fluivano in corone d'oro;
ma che accadeva? l'antico fratello
nessuna di esse riconosceva.
Cominciai, nella mia disperazione,
gli altri proscritti ad invocare,
ma ahimé non riconobbi, Io Stesso,
se non volti, e voci, e maligni sguardi.
Pieno d'orrore mi slanciai, le mie ali
aprendo al volo: ma perché? Ma dove?
Non sapevo: scacciato dagli amici
miei d'un tempo, come dall'antico Eden,
per Me divenne il mondo e muto e sordo.
Così al capriccio di onde e correnti
corre la barca danneggiata, senza
più alcuna vela e senza più timone,
e naviga senza saper la meta;
così sul fare del mattino, all'alba
un frammento di nube tempestosa
nel cielo azzurro, tutto nereggiante,
vola smarrito, e non trova sosta,
senza alcuno scopo e senza traccia:
e dove va lo sa soltanto Iddio!
Per qualche tempo ho guidato gli uomini,
tutti i peccati ho insegnato loro,
ogni nobile impresa ho calunniato,
ho denigrato ogni cosa bella;
Per breve tempo... e subito la fiamma
della pura fede ho spento in loro...
A che son valse queste mie fatiche
per questa gente sciocca e traditrice?
Mi nascosi così nelle profonde
grotte, oppure errai come meteora
nella profonda ombra della notte...
E galoppai in corsa solitaria
dalle vicine luci ingannato;
e caddi col cavallo negli abissi,
chiamando invano, e lasciando dietro,
sulle montagne, tracce sanguinose...
Ma del Male i tenebrosi diletti
mi piacquero solo per breve tempo!    
In lotta col potente uragano,
come sovente, sollevando polvere,
rivestito di fulmini e di nebbia,
correvo tra le nubi con frastuono
per soffocar nella ribelle folla
degli elementi il ribollir del cuore,
per salvarmi da tormentosa idea,
per dimenticar ciò che non potevo!
Che importa ricordar la lunga serie
delle tragedie e dei dolori umani
passati, e del futuro: che mai sono
di fronte ad un minuto solo delle
mie ignorate, oscure sofferenze?
L'umanità? La vita, le fatiche?
L'uomo è passato e passerà ancora...
c'è una speranza forse: il suo giudizio (*) :
Anche se condanna, forse perdona!
Ma la mia tristezza non può mutare,
come per me, essa non avrà mai fine;
e non potrà dormire in una tomba!
Ora come un serpente mi blandisce
ora mi brucia e frusta come fiamma
ora mi opprime, come una pietra,
sepolcro indistruttibile di tutte
le mie morte speranze e le passioni!

(*) Il giudizio di Dio; forse il Demone vorrebbe essere perdonato, e spera che attraverso Tamara e il suo amore, o "intercessione", Dio lo perdoni.

[...]

XI

E lievemente con le
Sue ardenti Labbra sfiorò la bocca,
della fanciulla le tremanti labbra;
con le parole seduttrici il Demone
alle preghiere di lei rispondeva.
Profondamente la guardò negli occhi!
E la bruciò. Nel buio della notte
su di lei la sua luce risplendeva
irresistibile: come un pugnale.
lo Spirito Maligno trionfava!
Il veleno mortale del suo bacio
subito entrò nel cuore di Tamara.
Un grido di tormento e di terrore
il silenzio notturno lacerò.
C'era l'amore in quel grido, e il dolore,
c'era il rimprovero e l'ultima prece,
e un saluto disperato, un addio
alla giovane vita ormai perduta.


XII

Proprio in quell'ora il guardiano di notte
solo, intorno alla muraglia erta
compiva silenzioso la sua ronda,
andava con la tavola di ghisa,
e rallentò il suo passo misurato
presso la cella della giovanetta.
Con l'animo turbato si fermò,
la mano sulla tavola di ghisa
e nel silenzio che regnava intorno
gli parve di sentire come il bacio
di due bocche frementi e innamorate,
un breve grido e un debole lamento.
E nel suo cuore sorse un dubbio,
un disonesto dubbio che svanì.
Ma fu soltanto un momento breve;
e tutto tacque: solo, di lontano
s'udiva appena soffiar un lieve vento,
che recava il mormorio di foglie.
E con l'oscura riva, con tristezza,
il montano ruscello sussurrava.
Recita il vecchio, tutto spaventato,
d'un santo martire la preghiera,
per cacciare dalla mente in peccato
lo Spirito Maligno ch'era dentro;
con le dita tremanti egli segna
il suo petto turbato da un pensiero
ed in silenzio con rapidi passi
la sua solita ronda ora prosegue.


XIII

Dolce come una peri (*) addormentata
riposa la fanciulla nella bara,
e più bianco e più puro di un velo
era il pallore languido del volto.
Abbassate per sempre son le ciglia...
Ma chi poteva dire se lo sguardo
sotto le ciglia fosse addormentato,
o per prodigio forse s'attendesse
magari un bacio, oppure l'aurora?
Ma era inutile, il raggio del giorno
che come un'onda d'oro scivolava
sul suo bel volto e invano in una muta
tristezza quelle labbra ora baciava...
No: della morte il sigillo eterno
nessuno ormai poteva più strappare!


(*) Peri è una parola persiana, che nella
mitologia iranica indicava una specie di fata,
protettrice degli uomini


XIV

Mai fu così, nei giorni della gioia,
di così vari colori fiorito,
fu il festivo colore di Tamara.
I fiori della sua nativa valle
(così richiede il rituale antico)
versano su di lei il loro aroma,
e stretti fra le sue mani morte
sembra che voglian salutare la terra!
E non c'è sul suo volto segno alcuno
che dica della morte di Tamara
nell'acme dell'ebbrezza e dell'amore;
ed eran colmi i suoi lineamenti
d'una fredda, marmorea bellezza
senza espressione, e del tutto priva
di ogni sentimento e di ragione:
come la morte, piena di mistero.
Come un sorriso strano e freddo sulle (*)
sue labbra si intravvedeva.
O, molte tristi cose che esso diceva
agli occhi che lo guardassero attenti:
c'era in esso un gelido disprezzo
dell'anima già pronta a sfiorire,
l'espressione dell'ultimo pensiero,
e un silenzioso addio alla terra,
della perduta vita il vano lampo.
Ella sembrava ancor più morta, ancora
senza alcuna speranza per il cuore,
negli occhi che per sempre s'eran spenti,
così nell'ora del tramonto splendido,
quando disciolto in quel mare d'oro
la carrozza del giorno s'è nascosta,
le nevi del Caucaso, per un momento,
un riflesso purpureo serbando,
risplendon nell'oscura lontananza;
ma quest'ultimo raggio non più vivo
non trova alcun riflesso nel deserto,
ed a nessun indicherà la strada
dalla sua altitudine ghiacciata...

(*) il sorriso di Tamara morta, costituisce
uno dei punti più misteriosi e affascinanti
del poema. Riflette che cosa? L'oltretomba,
il nulla? Ma che c'entra il sorriso con il nulla?
O forse la speranza di essere risvegliata,
come la Bella Addormentata nel Bosco?
O forse il ricordo per così fermatosi
sulle sue labbra del bacio travolgente del Demone?
I fiori che stanno intorno a Tamara la avvicinano
a Ofelia e a Giulietta.


XV

E i vicini e i parenti in folla
son già riuniti per il triste viaggio.
Tormentandosi i canuti capelli
Gudàl si batte silenzioso il petto,
e per l'ultima volta ora sale
sul cavallo dalla criniera bianca,
ed il corteo si muove. Tre giorni
e tre notti durerà il cammino.
Tra le vecchie ossa degli antenati
hanno scavato a lei un tranquillo asilo.
Un avo di Gudàlm saccheggiatore
di pellegrini e di villaggi, quando
la malattia a letto l'inchiodò
e giunse a lui del pentimento l'ora,
a riscatto delle sue molte colpe
promise di erigere una chiesa
su quelle alte montagne di granito,
dove solo si sente la canzone
della bufera, e dove il nibbio vola.
E presto tra le nevi del Kazbek
s'innalzò un solitario tempio,
e lassù le ossa di quel malvagio
di nuovo ritrovarono la pace.
E la roccia, sorella delle nubi,
in un cimitero fu trasformata:
Come se, essendo al cielo più vicina,
fosse più calda la casa della morte...
come se più lontana dalla gente
l'ultimo sonno più non disturbasse...
Ma più non sognano i morti la gioia
o la tristezza dei passati giorni.


XVI

Nello spazio dell'etere azzurro
uno dei santi angeli volava,
volava con le sue ali d'oro
e tra le sue braccia egli portava
via dal mondo un'anima peccatrice.
E con dolci parole di speranza
tutti i suoi dubbi egli dissipava,
lavandole dal volto con le lacrime
della sua storia, del suo patir le tracce.
E di lontano già dal Paradiso
gli giungevano i canti, ma a un tratto
dall'abisso lo Spirito del Male
sorse, sul loro libero cammino.
Era Possente come tromba d'aria,
e come fulmine Egli risplendeva,
e nella sua follia ed arroganza
Egli gridò: "Tamara è solo Mia!".
Al petto del suo angelo stringendosi
l'orrore soffocò con la preghiera
l'anima peccatrice di Tamara.
Il suo futuro ora si decideva,
Egli stava davanti a lei di nuovo,
ma, O Dio, chi lo riconosceva?
Or la guardava con Maligno Sguardo,
e ribollente del mortal veleno
del suo odio, un odio senza fine,
e dal suo Volto immobile spirava
il Gelido Orrore del Sepolcro.

"Sparisci, oscuro Spirito del dubbio!"
Gli rispose del Cielo il messaggero:
"Il tuo trionfo è stato troppo lungo;
è ora giunto il tempo del giudizio,
e del giusto decreto del Signore!
I tempi delle prove sono finiti;
le catene del Male son cadute
dalla veste mortale di Tamara.
L'attendevamo ormai da molto tempo!
L'anima di Tamara era di quelle
la cui vita è un unico momento
di un insopportabile dolore,
e di mai raggiungibili diletti:
Il Creatore col più puro etere
le loro vive corde ha intessuto.
Per il mondo esse non furono create
e non per loro fu creato il mondo!
Essa pagò con un crudele prezzo
tutti i suoi dubbi ed i suoi errori...
Ma ha sofferto Tamara ed amato,
e all'amore si è aperto il paradiso."

E l'angelo col suo severo sguardo
guardò negli occhi il Tentatore, e poi
agitando con gioia le sue ali
nell'azzurro del cielo sprofondò.
E maledisse il Demone sconfitto
i suoi sogni di follia e di amore,
e di nuovo Egli rimase, altero,
nell'universo, e solo come prima,
senza speranza alcuna. E senza amore...!

Sulla fiancata d'un roccioso monte
di Kojsauri sopra la vallata
s'ergono ancora fino ai nostri giorni
i frammenti d'un antica rovina.
Le tradizioni ancora sono piene
di fole che spaventano i bambini...
Come fantasma, memoria silenziosa
di quei tempi incantati, testimone,
tra gli alberi nereggian le rovine.
Il villaggio è disperso nella valle,
e la terra fiorisce e verdeggia;
lo scompigliato rombo delle voci
si perde, e lente carovane vanno,
vanno lontano, al suon dei campanelli.
E scintilla e schiumeggia il bel fiume
precipitando giù, fra l'alte nebbie.
E d'una vita eternamente giovane,
della frescura, del sole e primavera
gioisce qui scherzando la natura,
come un bambino ch'è senza pensieri.
è così triste quel castello, dopo
aver servito per così tanti anni,
come un vecchio che sia sopravvissuto
ai suoi amici e alla famiglia amata.
I suoi invisibili abitanti
attendon solo il sorgere della luna:
ed è la loro festa e libertà.
E corrono ronzando dappertutto.
Il canuto ragno, nuovo eremita,
tesse le basi delle sue reti.
Di lucertole verdi una famiglia
ora sul tetto lietamente gioca,
e striscia fuori il cauto serpente
dall'oscura fessura, sulla pietra,
sulla soglia del vecchio pianerottolo,
in tre anelli ora s'attorciglia,
ora giace come una lunga striscia
e brilla come una spada istoriata,
dimenticata sul campo di antiche
battaglie, inutile all'eroe caduto!...
Tutto è selvaggio, non ci sono tracce
dei passati anni. La mano del tempo
accuratamente li ha cancellati,
e niente più ci parla alla memoria
delle imprese del celebre Gudàl
e di Tamara, la sua cara figlia.
Ma sull'erta montagna c'è una chiesa,
dove la terra serba le loro ossa,
dove un sacro potere le conserva.
E si vede la chiesa tra le nubi
ancor oggi, e alle sue porte stanno
le rocce nere di granito a guardia,
coperte dagli strati della neve;
sul loro petto, invece di corazze,
risplendono i ghiacci secolari.
Le masse sonnolente di valanghe
sono sospese al ciglio delle rocce
come cascate che il gelo ha rinserrato:
e con cupo aspetto pare che attendano.
Come di guardia scorre la bufera
la polvere soffiando dalle mura,
ora riporta una canzone lunga,
ora sembra chiamar le sentinelle.
Ascoltan le notizie di lontano
sul tempio prodigioso, in quel paese,
solo le nubi vengono dall'oriente
e s'affrettano a porgere il saluto;
ma su tutte le pietre delle tombe
nessuno più si reca con dolore.
E del monte Kazbek la cupa roccia
ha in avida custodia la sua preda,
e dell'uomo l'eterno mormorare
la loro pace eterna più non turba.


"Il Demone" fu iniziato nel 1829 da un Lermontov sedicenne,
e concluso nel 1841. Nelle sue otto redazioni (di cui una, la settima, non c'è pervenuta) il Poema si configura come uno dei Capolavori della Letteratura Russa, oltre che della Letteratura Romantica Europea (personalmente adoro anche il "Lucifero" di Eminescu, Autore Romeno, che consiglio, e che viene chiamato "il Byron Romeno").

Il tema, l'amore del Demone (forse Satana o Lucifero) non è nuovo nella letteratura romantica: nell'Ottocento, per esempio, Byron aveva già scritto "Il Cielo e la Terra" (1823) seguito dall'"Eloah" di De Vigny (autore celebre anche per dei poemi a sfondo cristiano, e, che rispetto a Lermontov, mantiene riferimenti stilistici più "distaccati" ed "antiquati"). Sempre nel 1823 anche Thomas Moore scrive "Amori degli angeli" (purtroppo, credo non sia reperibile: io l'ho cercato parecchio nelle biblioteche, ma non sono riuscita a trovarlo).

Nell'800 il mito di Satana, del Ribelle, ha senz'altro influenzato i Romantici, tanto che per un periodo, fiorirono diverse opere "sataniche". Che il Satana Ottocentesco sia metafora della Ribellione (allo stato, alla chiesa, al padre - pensiamo anche a Turgenev e al suo "Padri e figli", 1862, che per primo delineava il Nichilismo come "rivolta al vecchio") o dell'anelito alla Scienza, alla Cultura Libera (Carducci, D'Annunzio, Baudelaire) è abbastanza evidente, e come già leggevo in Sandro Maggiolini, il nostro secolo ha messo non solo Dio tra parentesi, ma anche Satana: il primo non è che un dolcificato simulacro dell'amore, secondo una visione cristiana da "zucchero filato", che con molto imbarazzo, cerca di svestirsi dalla pesante e ingombrante eredità mortificante e oscura del passato, mentre il secondo, è diventato un pretesto per satanismo farlocco da teen-ager.

è interessante citare che il tema dell'amore degli angeli nasce proprio dalla Bibbia: "Allora i Figli di Dio videro le figlie degli uomini, e videro che erano belle, e le presero in moglie, ciascuna secondo la scelta". Da qui, la magia, "la stregoneria", quando gli angeli (non solo caduti nella ribellione satanica, ma sposati alle donne, e poi successivamente cacciati) insegnarono le Arti Magiche (ma anche la Matematica, la Geometria...) alle donne.
Satana visto come una sorta di Prometeo o Benefattore dell'umanità, a cui ha donato la Conoscenza, è sicuramente il tema cardine del Luciferismo, del Palladio, "La Luce della Conoscenza nel buio dell'oscurantismo di stampo clericale". Allego la riproduzione del Palladio "di stampo massonico", del 1888.



Anche il Satana miltoniano, nel "Paradiso Perduto" appare come un Ribelle, contro il Dio severo e dispotico del giudaismo/patriarcato, e le simpatie del lettore, in fondo, vanno quasi a Satana e al suo tentativo eroico ed energico, benché votato allo scacco, di Ribellione. Strano, verrebbe da commentare, per un autore, come Milton, di educazione puritana!

Byron e Goethe, invece, hanno preferito dotare Lo Spirito del Male di un'analisi quasi filosofica, e per un parallelo, mi verrebbe da citare anche l'Opera "I Masnadieri"(1781) di Schiller, nel monologo del bandito, che sembra quasi "mefistofelico":

"Comunque tu sia indicibile eternità , solo questo mio io mi resta fedele...
Comunque tu sia, porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo... Io sono il mio Cielo e il mio Inferno".

 Pensando al Diavolo, vengono senz'altro in mente anche le derive misogine e sessuofobiche del Medioevo: la donna, vista come strega, quindi, concubina del Diavolo. Laddove secondo la fantasia malata degli Inquisitori, Satana si congiungeva in forme orribili, con altrettante donne orribili, in Lermontov il bacio del Demone appare sublime, quasi etereo, come del resto anche Tamara è candida e verginale (una sorta di Madonna angelicata).

Originale anche la scelta di Lermontov, che ambienta il suo Poema nelle zone montuose del Caucaso, la Georgia. Bazzarelli così descrive il Caucaso:

"Il Caucaso era un fatto del sublime, con le sue nevi, le sue bufere, con l'incombere minaccioso, terribile, delle pareti montane, con le strade vertiginose, con la sua terrestrità che si riflette sui personaggi".

Vengono quasi in mente i bellissimi dipinti di Friedrich, il Pittore del Sublime!

Il Poema, si conclude con la morte di Tamara, che "viene portata in Paradiso", mentre Il Demone vive la perdita del suo amore, e come lasciava trapelare qualche verso del Poema, anche la sua speranza di Salvezza e Redenzione.

Per finire, citiamo il concetto dell'Apocatastasi: la possibilità che Satana, alla fine dei tempi, si salvi, come prova della grandezza di Dio.   


In campo filosofico uno degli autori che amo di più è Aleksandr Herzen, che ho letto decenni fa in "Dall'altra sponda". Purtroppo non lo possiedo originale, comunque questi sono gli stralci che mi erano piaciuti di più e che mi hanno molto influenzato dal punto di vista filosofico. è un libro che dovrei proprio ri-ordinare in biblioteca per far uscire uno studio critico aggiornato al 2018...

Un libro che è una gemma di Nichilismo contemplativo...


"Perché il fine lontano non sarà forse mai raggiunto, mentre i tormenti, le sofferenze, e i crimini del presente sono anche troppo reali."

"Non costruiamo noi, noi demoliamo, non annunciamo una nuova rivelazione, disperdiamo bensì la vecchia menzogna."

"Nulla che io rispetti, ad eccezione di quanto esso condanna, eppure resto...resto a soffrire, doppiamente, a soffrire del mio dolore e del suo, a perire forse nella disfatta e nel crollo."

"Le conseguenze non mi riguardano... è meglio smarrirsi, cadere del tutto, piuttosto che rinunciare alla propria verità."

"Ci siamo storpiati sotto il peso della disperazione, eppure ci siamo salvati in qualche modo... la sofferenza distrae, occupa, consola."

"Il futuro non ci appartiene, col presente non abbiamo niente da spartire... crediamo in tutto, fuorchè in noi stessi..."

" La vita dei popoli diventa un gioco vacuo, un modellare incessante con la sabbia, con le pietre, perché poi tutto crolli nuovamente a terra, perchè gli uomini strisciando da sotto le macerie ricomincino da capo... ottenendo nel corso dei secoli, con lunga fatica, un nuovo crollo."

"Trovare una consolazione nell'assenza stessa di speranza."

"Noi non abbiamo altra occupazione che soffermarci tristemente sulle sue rovine, né altro significato che servirgli da monumento tombale?"

"Siamo riusciti a renderci conto della nostra condizione, non speriamo più nulla, nulla più attendiamo, o, se volete, ci aspettiamo di tutto: è la stessa cosa."


E musicalmente, non posso che consigliare i cradle of filthiani Black Countess




sì lo so, sono un po' il plagio dei COF dei tempi belli... e lo so bene, sono assolutamente prevedibile, ma secondo me leggersi Lermontov con sottofondo di Black Countess è il massimo del piacere letterario!


che ci posso fare se sono fatta così?! per me associare libri al Sympho Black Metal è qualcosa di assolutamente fondamentale! E poi il russo nel Symphonic Black Metal è stupendo:


Chissà che ne direbbe Lermontov!!!!!!!!